Il gruppo automobilistico guidato dagli Elkann, Stellantis, alza la pressione su Bruxelles. E mentre il Vecchio Continente discute, oltreoceano e nel Mediterraneo si consolidano piani robusti.
Il messaggio è arrivato forte, in una sala gremita di addetti ai lavori, investitori e fornitori. Stellantis, uno dei maggiori costruttori globali, ha scelto un palcoscenico europeo per lanciare un avvertimento che suona come un cambio di fase: l’Europa non può più dare per scontato il suo primato nell’automotive. Il gruppo controllato da Exor e riconducibile alla famiglia Elkann affila le armi regolatorie e industriali e fa capire che la geografia dei capitali è diventata mobile, perfino per chi in Europa affonda radici storiche e industriali.

Il fatto che a pronunciare le parole più dure sia stato l’amministratore delegato Antonio Filosa, di fronte ai vertici dell’automotive francese riuniti a Parigi, non è un dettaglio. È il segnale di un pressing negoziale che si sovrappone a un riposizionamento industriale già in corso. Filosa ha parlato di competitività, di tempi della transizione, di tecnologie e di leve politiche. E ha fatto capire che il tempo dei rinvii è finito.
A Bruxelles il dossier è noto, discusso, contestato e, in parte, incardinato nelle agende dei governi. Ma l’industria chiede chiarezza. E Stellantis, che presidia marchi e stabilimenti chiave in Italia, Francia, Germania e altrove, mette sul tavolo un interrogativo che pesa su occupazione, filiere e ricerca: dove conviene investire oggi per essere vincenti domani?
La minaccia di Stellantis: davvero abbandona l’Europa?
Nel suo intervento all’Automotive Industry Day organizzato dalla Pfa a Parigi, Filosa non ha usato giri di parole: “Crediamo davvero che la regolamentazione per come è stata fissata da Bruxelles sia sbagliata. Non sbagliata a metà, non imperfetta, ma semplicemente sbagliata. Dobbiamo assicurarci che l’Europa lo capisca”. Il riferimento è al divieto di vendita delle auto con motore termico dal 1° gennaio 2035, un caposaldo della transizione che l’industria chiede di modulare.

L’apertura emersa al Consiglio Competitività del 23 ottobre, con il possibile spazio per e-fuel e biocarburanti agricoli, non basta a sciogliere il nodo principale: il settore spinge per uno slittamento, idealmente al 2040, o per una flessibilità reale sulle tecnologie. Filosa ha parlato di un “piano A” unico: “C’è talmente un largo consenso tra molti operatori del settore che non consideriamo un piano B. C’è solo il piano A e dobbiamo spingerlo nei confronti dei legislatori e delle autorità politiche europee”.
L’argomento è netto: più libertà tecnologica e più tempo per ridurre la dipendenza strategica dall’Asia, senza compromettere gli obiettivi ambientali. Mentre l’Europa riflette, Stellantis muove. Negli Stati Uniti è stato varato un programma da 13 miliardi di dollari in quattro anni, definito dalla stessa azienda “il più grande investimento nei 100 anni di storia del gruppo negli Usa”, con la creazione stimata di oltre 5.000 posti di lavoro.
A sud del Mediterraneo, in Marocco, arrivano 1,2 miliardi di euro per potenziare la fabbrica di Kenitra, inaugurata nel 2019: la capacità annua passerà da 200 mila a 535 mila veicoli. Due assi che compongono una geografia industriale capace di dare a Stellantis costi competitivi, flessibilità e accesso a mercati in crescita. Il messaggio implicito è che la mappa globale degli investimenti è sempre più selettiva: laddove il quadro regolatorio incentiva, le risorse arrivano; laddove irrigidisce, si rallenta.

Filosa lo ha riassunto con chiarezza: maggiori investimenti in Europa arriveranno solo se il divieto del 2035 verrà attenuato e se ai costruttori sarà consentito innovare anche su fronti diversi dal full electric. La questione non è solo di scadenze: è di ecosistemi. “La sovranità industriale dell’Europa è a rischio a causa della dipendenza dalla Cina”, ha detto Filosa, ricordando che Pechino ha costruito in oltre vent’anni una filiera integrata su batterie, materiali e componentistica.
L’Europa, per mettersi alla pari, avrebbe bisogno di almeno un decennio. Nel frattempo, i marchi cinesi, forti di costi inferiori e di una filiera domestica, avanzano nelle fasce di mercato che l’Occidente fatica a presidiare con margini soddisfacenti. Per i costruttori europei, compresa Stellantis, la risposta invocata è una transizione che non bruci gli asset esistenti prima che i nuovi siano pienamente competitivi. È una richiesta di gradualismo, ma anche di politica industriale: capacità produttive di celle e componenti in Europa, approvvigionamenti critici meno esposti, regole sugli aiuti che consentano di scalare.
Filosa ha evocato una “azione comune dei costruttori” come meccanismo di difesa. Ma ha anche lasciato intuire che, in assenza di una rotta europea più equilibrata, prevarranno le strategie individuali. I piani già annunciati oltreoceano e in Marocco sono tasselli coerenti con questo scenario: diversificazione delle basi produttive, bilanciamento dei rischi, allocazione del capitale dove i ritorni sono più prevedibili.
Sul tavolo resta la richiesta di un aggiustamento regolatorio che, nelle intenzioni dell’industria, non significa frenare la decarbonizzazione, ma renderla sostenibile per filiere e lavoratori. La palla passa a governi e istituzioni europee, chiamati a decidere se e come modulare tempi e strumenti della transizione, mentre i costruttori misurano in tempo reale la distanza tra annunci e realtà dei mercati.





